Sabina Depaoli

 

Linee di un’antropologia agostiniana: Agostino e i giovani d’oggi

                                                         

                                            

  Prima di entrare nel merito della riflessione che intendo proporre, ritengo necessaria una premessa che consenta di comprendere meglio lo spirito del mio intervento.

  Lavoro da anni con studenti liceali e parallelamente porto avanti attività di ricerca e approfondimento intorno alla filosofia di Agostino ed altri autori.

  La sfida educativa e didattica che ogni giorno mi accompagna in classe non vi nego è piuttosto ambiziosa, soprattutto in un contesto  sociale come quello attuale che sta tentando di decretare la morte della cultura umanistica, come ha scritto Marco Lodoli qualche tempo fa in un articolo pubblicato da Repubblica.

  È vero i ragazzi di oggi, credo di conoscerli abbastanza bene, sono travolti da un flusso di comunicazioni analogiche, ma soprattutto digitali, la cui velocità e peculiarità li porta a vivere in un perpetuo ciclo di qui e ora che riduce drasticamente il tempo della riflessione, del ripensamento, di quell' esame di coscienza, non nevrotico e neppure moralistico, che permetteva a chi lo praticava di collocarsi in una prospettiva di continua ridefinizione della propria identità, tesa a dare senso e significato ad ogni atto di esistenza.

  Perdonate la mia presunzione, ma io,  tutte le mattine,  quando entro in classe ho ancora la convinzione che la cultura umanistica non sia né morta né sepolta, ma abbia ancora molto da dire ai ragazzi di oggi, come quelli di ieri , purché si trovino le modalità didattiche di accendere in loro la passione per quelli che sono definiti “vecchi contenuti”, ma  che in realtà  portano con sé elementi di novità assolutamente imprescindibili se lo scopo che ci si prefigge è quello di educare al pensiero critico. E credo che tutti saremo d'accordo nel ritenere che soprattutto oggi, forse più di ieri, abbiamo bisogno di coltivare la criticità della mente.

  In Bentornata realtà, Il nuovo realismo in discussione,  Hilary Putnam sostiene la tesi che “ la filosofa  può svolgere un’importante funzione critica e contribuire alla nostra emancipazione”[1], mentre Mario De Caro e Maurizio Ferraris mettono in evidenza come la filosofia debba avere una “pertinenza pubblica” e, pertanto, debba intrinsecamente far parte  della filosofia “ la capacità di rivolgersi a uno spazio pubblico, consegnando a quello spazio risultati elaborati tecnicamente, però in forma linguisticamente accessibile.”

  Aggiungo che è necessario che tutta la cultura umanistica, non solo quella filosofica, assuma una “pertinenza pubblica”, specialmente tra le giovani generazioni, anche perché a decretarne  la sua morte non è solo il mondo delle scuole delle periferie, nelle quali, comprendo Lodoli, è  diventato  un compito piuttosto arduo insegnare i classici,  ma soprattutto una parte considerevole del mondo scientifico, in particolare quella di orientamento scientista. E ciò che fa ulteriormente pensare è che in quest’ultimo le voci più autorevoli non si sono  formate nelle scuole di periferia, ma in ambienti liceali, dove la tradizione umanistica costituisce un pilastro del curriculum.  

  Sono queste le convinzioni che mi persuadono circa l'urgenza di promuovere l'incontro quotidiano dei nostri ragazzi con uomini di alta statura culturale,  un incontro vero e autentico attraverso il quale il “maestro”, come sostiene Gianfranco Ravasi, “ accende interesse, apre squarci di vita e di verità, col suo sapere offre anche se stesso”[2], affinché essi abbiano l'opportunità di confrontarsi con quei modelli positivi, di cui gli esperti di educazione parlano, che tanto favoriscono il percorso di crescita personale e culturale delle giovani personalità in formazione.

  Marco Lodoli chiude l'articolo di cui parlavo poc'anzi scrivendo che: “Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy .       Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l'urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei.”[3]

  E’ quasi inutile dire che sono assolutamente convinta, che un pensatore come Agostino possa essere una delle fonti di energia di cui i ragazzi hanno bisogno per affrontare la vita, pur nella loro diversità.

  Ed entro nel merito della mia riflessione. Non credo al disinteresse per la tradizione, penso invece che tale disinteresse sia determinato dalle convinzioni implicite o esplicite  di chi pensa che la tradizione non abbia più nulla da comunicare ai giovani d'oggi. Convinzione che scaturisce da una sfiducia di fondo nelle potenzialità giovanili e deriva da un atteggiamento di acritico pessimismo.

  Sono qui a dare testimonianza del fatto che l'uomo Agostino affascina ancora i ragazzi di oggi come quelli di ieri. E ciò che affascina è proprio lui, l'uomo  Agostino, così come egli si narra nelle Confessioni. E il fascino immediato che sprigionano le Confessioni passa proprio attraverso le affinità che si delineano tra Agostino e l'uomo di oggi.

  Agostino è l'uomo di tutti i tempi, impegnato in ciò che noi chiamiamo ricerca di senso, senso dell'esistenza, del rapporto con l’altro da sé, del male, della morte, della colpa e dell'equilibrio smarrito e ritrovato.

  Il filosofo non  racconta, dunque, un'esperienza “morta e sepolta”, ma un'esperienza in cui non è poi così difficile identificarsi, neanche per un ragazzo che “legge altri libri, ascolta altra musica, ama e odia in un altro modo.”

  Ripenso ad alcune tappe fondamentali del cammino esperienziale agostiniano così come ci sono narrate nelle Confessioni. Agostino fanciullo  non ama lo studio e odia esservi costretto; e tuttavia vi è costretto  e ciò torna a suo bene; “ ma bene io non facevo  - scrive – perché non avrei studiato se non mi ci avessero obbligato.”[4]

  Agostino  confessa di detestare il greco, anche se non ne conosce la ragione, ma ama appassionatamente il latino, non quello insegnato dai dai primi maestri, bensì quello dei cosiddetti grammatici, “ perché i primi corsi – chiarisce – quelli dove si impara a leggere, scrivere e contare mi riuscivano altrettanto pesanti e penosi, quanto lo studio del greco.”[5]

  Agostino adolescente, un vero e proprio calderone ribollente di passioni, attratto dal vizio e desideroso di identificare se stesso attraverso la trasgressione. “ […] ero in piena effervescenza – scrive -: mi abbandonai all’impeto dei miei sensi e mi staccai da te e trasgredii ogni norma[…]”[6]

  E’ appena il caso di ricordare il celebre racconto del furto del pere, commesso senza essere costretto da alcuna miseria , bensì da insofferenza di giustizia . “ Rubai infatti ciò che avevo in abbondanza e di qualità anche migliore , per godere non di ciò che cercavo di procurarmi con il furto, bensì del furto stesso e del peccato.”[7]

  Agostino rapito dagli spettacoli teatrali dove l’uomo prova piacere soffrendo nel contemplare la tragedia e il lutto altrui.

  Agostino, diciottenne, fervidissimo studente di retorica a Cartagine,  realizza il suo primo incontro con la sapienza attraverso la lettura dell’Hortensio, dialogo di Cicerone in cui il giovane trova le prime istruzioni per raggiungere la via maestra della libertà e felicità di pensare.

  E poi la prima consapevole  lettura delle Sacre scritture: “ Decisi dunque di dedicarmi alle Sacre Scritture e vedere com’erano. Ed ecco vi scorgo qualcosa di impenetrabile ai superbi e inaccessibile ai fanciulli, e tuttavia di accesso   basso e agevole, di proseguimento sempre più alto e avvolto di misteri, e io non ero in grado di penetrarvi o di chinare il capo a seconda del cammino.”[8]

  Agostino, rileggendo se stesso a distanza di anni, si rivede nella sua superbia, gonfio della propria vanità e per ciò incapace di cogliere la verità, accessibile soltanto attraverso l’esperienza dell’infirmitas dell’uomo. Il giovane Agostino  si sente ricco di quella scienza che Bruno Salmona definisce superba, una scienza propria alla ragione che, perso il senso del limite, cade nella dismisura, si propone come criterio di verità e si allontana da Dio. Antagonista della scienza superba è la scienza che si fonda nella carità, si riveste di umiltà e si apre alla verità trascendente.[9] Ma per Agostino non sono ancora maturi i tempi in cui si sarebbe vestito di modesti abiti e, eccessivamente innamorato della propria ragione, cade nell’esca del Manicheismo. I Manichei attanagliano Agostino per nove anni, un Agostino assetato di verità, ma incapace di concepire una realtà che non sia materiale.

  Agostino nel suo intimo coltiva, tuttavia, il dubbio perenne e, deluso dall’incontro con il vescovo manicheo Fausto, si stacca dalla setta e si orienta verso una posizione scettica che crea  uno spazio interiore di precarietà,  necessario a raggiungere posizioni ulteriori.

  L’ascolto delle prediche di Ambrogio a Milano e la lettura delle opere di Plotino aiutano Agostino ad abbandonare l’ordine materiale per approcciare quello interiore che diventa via verso la conversione.

  Agostino sperimenta tutta la grandezza, ma anche finitezza della ragione umana,  facoltà che nel DeTrinitate definisce ratio inferior, destinata alla conoscenza del fenomenico, e grazie alla fede apre la porta della trascendenza indagabile, anche se non esaustivamente,  dalla ratio superior. [10]

  Egli progressivamente si libera dalla morsa delle alternative che imprigionano il pensiero nella logica dell’aut aut e si pone nella prospettiva trinitaria che gli consente di pensare secondo il paradigma unità/relazionalità: ragione e fede non vengono più concepiti come momenti separati, né tanto meno antitetici. Il problema della fede, per Agostino, sta nello scongiurare il pericolo di essere orientata ad un falso oggetto: l’uomo, credendo ciò che non vede, potrebbe raffigurarsi qualcosa che non esiste, spiega nelle Confessioni, mentre per lui è importante che la fede sia autentica e concorra con l’intelletto alla comprensione delle cose dapprima  credute e cercate.     

  Sono  tante le tappe significative del percorso esistenziale agostiniano, ma il tempo è sovrano e lascio ai ragazzi interessati l’invito a ripercorrerle attraverso la lettura dell’opera in questione.

  Non  è necessario che chi si avvicina al pensiero agostiniano delle Confessioni sia un credente per trovare in quest'opera quel nutrimento di cui la nostra mens ha assolutamente bisogno. Anche colui che non condivide le credenze religiose di Agostino, infatti, non può non ammirare certi aspetti di una personalità così tanto attraente: l'onestà e il rigore intellettuale, il coraggio di continuare a ricercare perpetuamente, ma soprattutto il piacere di vivere nel fervore del cuore e dello spirito.

  Fin dal primo libro Agostino analizza la situazione interiore dell'uomo traviato, " lontano dal tuo volto, scrive il filosofo, immerso nelle tenebre della passione. "

Nelle Confessioni è centrale il concetto di infirmitas,: l’essere umano, in quanto finito, è “ infermo” ossia “ non sano”, limitato. La posizione agostiniana è di grande realismo.

  L’infirmitas agostiniana, tuttavia, non genera pessimismo, ma dubbio radicale, scetticismo, e conseguentemente ricerca.

  E siamo a un altro tema formativo, oltre che teoretico, fondamentale per il giovane d'oggi: quello del dubbio, ma di un dubbio che  genera indagine appunto e presuppone di trovare ciò che si cerca. Agostino dubita, ma cerca la verità e questa ricerca ha come presupposto che il cercato esista. Se qualcuno cerca qualcosa è come rapito dal desiderio verso ciò che cerca. Il credere che il cercato esista presuppone – come abbiamo detto poc’anzi - la dimensione della fede. Una fede che, tuttavia, non è superstizione o cieco fideismo, ma è interconnessa alla dimensione razionale. La fede viene continuamente risvegliata dal dubbio e dalla ricerca.

  Agostino è l’emblema dell’uomo in ricerca, l’homo viator, che ridefinisce continuamente la propria identità. Anche la conversione non è un traguardo, ma un nuovo punto di partenza.

  Agostino, attraverso il dubbio e lo scetticismo, perviene alla verità cristiana, tuttavia la verità che trova è mistero, inteso non come qualcosa di oscuro che va accolto dogmaticamente,  ma come una realtà infinita che non si è mai finito di conoscere.

  La veritas per Agostino  non è, infatti, qualcosa che sta lì a portata di mano e che si afferra una volta per tutte, ma è sempre indaganda. Pensate al valore pedagogico di una posizione di questo tipo in una società dove la maggior parte delle persone, ma soprattutto i giovani, vivono la dimensione consumistica del tutto e subito.

  Approfondendo i contenuti agostiniani i giovani studiosi si trovano di fronte a un grande bivio che fa riflettere intorno ad una scelta radicale: la veritas di cui parla Agostino è una realtà immanente, ma insieme trascendente che egli trova rientrando in se stesso, ma insieme trascendendo se stesso. "Redi in te ipsum, recita il famoso monito agostiniano del De Vera Religione, et trascende te ipsum in interiore homine habitat veritas."

  Come Agostino anche il giovane d'oggi può scoprire la via della propria interiorità, unico spazio in cui è possibile localizzare l’esperienza di Dio. Certo la tentazione, spesso inconsapevole, di restare e cercare i propri referenti nella dimensione del foris è molto forte. Agostino richiama all’intus.  Ma il problema che intendo porre in questo momento va oltre. Molti giovani, se interrogati su Dio, si definiscono atei, o al più agnostici. La maggior parte di loro si pone il problema di Dio, ma lo risolve ad un livello molto superficiale e il contesto sociale e culturale certamente non aiuta. Ora la questione non è quella di definirsi atei o agnostici o professanti una religione diversa da quella cristiana, ma è il piano della riflessione da cui scaturisce la risposta.

  I ragazzi raramente posizionano la questione Dio su un piano corretto di discussione ed è per questo che servono ancora i modelli. La domanda intorno a Dio, qualunque sia la risposta, non può essere risolta superficialmente, non può non produrre inquietudine, se correttamente posta. Non può essere liquidata aderendo agli slogan del momento.

  Agostino ci mostra, al contrario, tutto il travaglio che sconvolge l'uomo che si pone il problema di se stesso e insieme anche quello di Dio. Nel libro IV delle Confessioni il filosofo scrive: " factus  eram ipse mihi magna questio" " io ero diventato un grande problema a me stesso " ponendo il problema antropologico in tutta la sua enigmaticità, problema dal quale scaturirà un discorso circolare che coinvolgerà l'uomo e Dio.

  Il problema di Dio, dunque, appare intrinsecamente legato a quello dell'uomo che cerca se stesso, ad esso non si può sfuggire, ma lo si può porre e risolvere a un livello di approfondimento non adeguato, in quanto la risposta in realtà non è mai circoscritta in se stessa, ma coinvolge la nostra modalità di approcciarci al mondo, agli altri e a noi stessi.

  E giungo alla scelta radicale di cui parlavo poc'anzi: Agostino ci insegna che siamo esseri squilibrati tra la terra e il cielo, capax peccati e insieme capax dei. E questo squilibrio è il problema dell'uomo: vivere rinchiusi nella terrestrità intesa come dimensione definitiva dell'esistenza umana, oppure vivere  con la consapevolezza che la nostra cittadinanza non è pienamente terrena e dunque collocarsi nella prospettiva della trascendenza?

  Nel De civitate Dei, l’ultima grande opera composta in seguito ai drammatici eventi del sacco di Roma del 410,  Agostino affronta il tema di come dare senso alla storia umana. Egli distingue due città: la citta terrena e la città celeste, mentre  i cives, i cittadini,  sono coloro che possono  scegliere di abbassarsi fino al peccato, chiudendo ogni possibilità di aprirsi alla trascendenza oppure decidere di realizzare la propria vocazione divina innalzandosi fino a Dio.   Questi ultimi sono rapiti dall’amore per la verità da indagare; essi cercano il fondamento, ciò che dà senso al vivere. Cercano Dio, il Dio che è presente nell’interiorità di ciascun uomo, creato a sua immagine e somiglianza e  al quale ciascun uomo sarà chiamato a dare il suo assenso oppure no.

  Questa scelta radicale, e qui mi rivolgo ai ragazzi presenti, primo o poi toccherà ciascuno di voi che posto di fronte  al bivio sarà libero di scegliere la direzione che crederà  e capirà essere autentica.  L’invito è di non cadere nella banalità del male, ma di essere profondi, critici e consapevoli fino in fondo, perché da questa scelta dipenderà il senso definitivo del vostro vivere, in ogni suo atto e aspetto.

 

 

 

 



[1] Bilgrami, De Caro, Di Francesco, Eco, Ferraris, Marconi, Putnam, Recalcati, Rovane, Searle, Bentornata realtà, Il nuovo realismo in discussione, a cura di Mario De Caro e Maurizio Ferraris, Einaudi, Tornino, 2012.

[2] Gianfranco Ravasi, La fiamma, in Breviario, Domenica, Il Sole 24 Ore, 4 novembre, 2012.

[3] Marco Lodoli, La Repubblica, 31 ottobre 2012.

[4] Sant’Agostino, Confessioni, I, XII, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori, Vicenza, 1992.

[5] Sant’Agostino, op. cit., I, XIII. 

[6] Sant’Agostino, op. cit., II, IV.

[7] Sant’Agostino, op. cit., II, IV.

[8] Sant’Agostino, op. cit., III, VI.

[9] Cfr. Bruno Salmona, “Scienza e umiltà”, in Settimanale cattolico, Genova, 25 giugno, 1992.

[10] Cfr. Sabina Depaoli, Linee di un’antropologia agostiniana, Tilgher, Genova, 1996.